È vivente, questa terra.
Feconda di passato.
Inquieta, apparentemente immobile — è Pantelleria.
Se la guardi nel solco del tuo cammino, è un brulicare di vita: tra i rami degli alberi, tra una pietra e l’altra, c’è il cappero che ha raggirato l’arsura, che ha fatto di microscopiche gocce di rugiada il suo terreno fertile.
Ha fatto la pianta, il sapore, il colore dei fiori.
Pantelleria è vivente perché trasuda di bisogni e necessità:
niente è dato per scontato, e qualsiasi fetta è da scontare.
Di una torta intera se ne fanno tanti piccoli pezzi — sia esso uno spicchio di sole o una porzione d’ombra.
A ottobre Pantelleria siede un attimo su se stessa e contempla il punto in cui ogni sguardo si arresta: l’orizzonte del suo tramonto.
Quando ormai l’aria è più fresca, e l’isola ha addolcito le sue asprezze terrose e soleggiate.
Se la guardi dall’alto, vedi altro ancora.
Sarà l’ulivo cespuglioso, e attorno l’umano e il divino di chi si china a raccoglierne i turgidi frutti;
vedrai la piccola vite, “introversa”, china su se stessa, paziente e riflessiva come chi se ne prende cura.
Pantelleria — che tu la osservi nel suo cammino nodoso o da un’altura che abbraccia una porzione di questa terra — resta ai miei occhi un esempio di virtù.
Sia essa umana o divina, non saprei.
Ma di ammirazione trasudo, pensandola.
Presente, anche se lontana.