Dal margine di una Pantelleria silenziosa ho compreso che mi è sempre sfuggito qualcosa.
Fosse l’acqua che scivolava troppo veloce nella grondaia dentro un temporale inatteso oppure un sole che bruciava facendo capolino in mezzo a nuvole frettolose o il vento che con troppa facilità scompiglia i miei capelli che non conoscono un ordine, se non quello che gli ha impartito il mio sonno, da sempre, inquieto.
Io ho sempre saputo che mi stesse sfuggendo qualcosa.
Per molti giorni mi sono detta che avrei dovuto mettermi a correre perché a nessuno è dato il tempo di attendere, per altri ancora, spenta da una fatica che si era consumata da sola, mi sono fermata ad aspettare davanti l’antro di una grotta, faccia al fuoco e spalle all’esterno aspettando che le ombre diventassero parole o suoni intellegibili.
Adesso, dentro una coscienza che si mangia le unghie e mordicchia il duro dei polpastrelli, mi domando se e quanto io stessi inseguendo qualcosa o, altrimenti, quanto io stessi fuggendo dal “cane affamato” che è una coscienza imperfetta.
Tutto a fari spenti signori, perché a parte l’estemporaneità del giorno, nella vita la luce artificiale non serve a nulla. Crea ombre illusorie che non ti consegnano né un’ora approssimativa né la verità dentro l’angolo più buio della tua coscienza.
Mi è sempre sfuggita qualcosa e dire che ero stata avvisata in un tempo moderatamente giusto per comprenderlo.
Ma i segnali, le nubi di fumo, la bottiglia in mezzo all’oceano sono fatti per andare perduti o per arrivare a chi sa fraintendere.
Può pure darsi che una di quelle fossi io.
La luce che viene da fuori mi dice che la giornata sta per finire.
Svelta, domani, quando non sarà neanche l’alba andrò incontro all’ennesimo senso incompreso e incompiuto, senza potere nemmeno immaginare cosa altro spetti alla vita che avevo immaginato.
Ma l’immaginazione è una faccenda per chi non si affaccenda.
D’altro canto, il resto, tutto il resto l’ho perso mentre inseguivo qualcos’altro.
E io non mi riparerò mai più dalla pioggia.