Pantelleria, giustizia a corpo nudo

Pantelleria, giustizia a corpo nudo

Il sole sta calando lento sull’isola, e l’aria si addensa in quell’oro ruvido che solo Pantelleria sa stendere sul giorno.
Sul tetto di un dammuso, un uomo, a torso nudo, spazza le foglie cadute. La scopa di saggina disegna fruscii secchi su una volta bianca — così bianca da sembrare più candida dell’anima di un giusto. Di uno che non sa nemmeno di esserlo.

Sotto il cannizzo, i gatti scorrazzano, rapidi come pensieri che non si riesce a trattenere. Le mosche si sono diradate: il caldo, sazio di sé, ha lasciato spazio a una pace ruvida, fatta di piccoli rumori che si infilano tra le pietre. Resta solo la musica che ascolto in cuffia, un contrappunto moderno a questo paesaggio arcaico, e lo scorrere lento di questa ora di mezzo, che non è più giorno e non è ancora notte.

Pantelleria è lavoro.
È sasso, vento, viti basse e mani consumate. È alzarsi con il primo chiarore e piegare la schiena fino all’ultima ombra del tramonto. Ma in tutto questo, in qualche modo, l’isola ti rende giustizia. Non ti fa sconti, mai. Ma ti restituisce qualcosa.

Non è una gratitudine facile, non ha la forma della ricompensa. È piuttosto un riconoscimento muto, fatto di equilibrio, come se la tua fatica trovasse un senso solo dentro questa terra spigolosa, che ha la forma grezza di un essere umano.

Io questa giustizia la intravedo, ogni tanto.
Quando il vento si placa, o quando la luce tocca le rocce con dolcezza inaspettata.
La intravedo tra i gesti semplici — una scopa, una schiena curva, il miagolio distante — e in quella consapevolezza muta che Pantelleria non regala, ma dona.
Piccoli gesti. Giusti. Come deve essere.

 
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