Ricordo di una Pasqua a Pantelleria

Ricordo di una Pasqua a Pantelleria

Solomon era nato nel 1886, da una famiglia ebrea, a Mosca.
Era un giornalista quando il suo redattore capo, per un caso, si accorse della prodigiosa memoria di quest’uomo.
Incuriosito dal fatto che Salomon fosse capace di memorizzare, parola per parola, le frasi di un discorso e colpito dalla facilità di questi nell’immagazzinare fatti, date e circostanze lo inviò da un suo amico psicologo che, altrettanto impressionato, ne volle studiare il caso.
Solomon non dimenticava.
Un’ottima memoria, una buona dose di immaginazione (che si traduceva in capacità sinestesiche) facevano di lui l’uomo che non riusciva a dimenticare”.
Lì dove il ricordo “meccanico” non lo supportava, subentrava questa sua capacità, detta sinestesia, di associare a persone o episodi di vita a sua volta un colore, un brano musicale e financo sensazioni tattili o sapori.

Curioso incipit il mio.
Lo so.
Ma se io non fossi assistita da un certo grado di sinestesia non ricorderei quasi nulla.
Io dimentico con troppa facilità.
Perché dalla memoria, talvolta, bisogna difendersi.
Così nella vita mi sono adattata.

Tutto questo per raccontarvi di una mia Pasqua a Pantelleria, lì dove i visi sono come pixellati da un tempo che riduce e sfoca certa materia, ma sono rimaste vivide alcune sensazioni.
La mia sveglia presto al mattino, la musica di sottofondo mentre cucino un timballo di riso con verdure e l’odore del soffritto che invade la casa.
“Le tre madri” di De André in sottofondo.
La luce che entra in cucina è appena dorata e il riso tosta assieme al brodo spargendo nell’aria un odore appena caramellato.
Il ricordo netto di una doccia fatta fuori e della pelle che friggeva insieme alle verdure.
I miei abiti assemblati come pezzi di lego dai mille colori, indossati uno sopra l’altro manco fossero pagine di un libro.
Il percorso in macchina fino a Cala Tramontana che il sole è già alto e l’aria che entra dal finestrino mentre cerco di sfilarmi il giubbotto tenendo il volante con una mano, col ginocchio o col mento.

E poi gli amici che mi vengono incontro per togliermi le vivande dalle mani e la tovaglia colorata.
L’odore salato della posidonia depositata sugli scogli e io che ad uno ad uno sfilo prima il pullover, poi la maglia di cotone e quando infine resto in top sento il sole caldo che si posa su braccia e viso.
Ricordo il sapore del vino che sapeva di taleggio e muschio.
E poi le voci, tante voci e le risate.
Quelle dei bambini simili a certi “acchiappasogni” mossi dal vento.
D’un tratto senza alcun preavviso sono semi nuda sotto la passerella di legno.
Il mare è blu “azolo”.
Senza nemmeno averlo pensato il mio tuffo dentro un mare gelato, il formicolio agli arti e alla coscienza.
Gli amici che mi tirano su mentre ridono e mi danno della matta.
Poi avvolta dentro una seconda tovaglia da tavola tutta fiori e odore di cibo mi stendo sulle assi di legno.
Il sole, mentre socchiudo gli occhi, mi regala una pioggia di macchie variopinte.

Tornata a casa, viso accaldato e qualche brivido.
Infine il ricordo di una febbre che tra sonno e veglia mi avrebbe serenamente accompagnata per i successivi tre giorni.
Talvolta, per certi bei ricordi, si paga un prezzo.
Questa volta piccolo, delirante e sudato.

 
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