La città e il mare

La città e il mare

Mentre cammino sento me stessa perpendicolare al terreno, il terreno che solco e il cielo sopra di me.
A fianco la gente, parallela o perpendicolare se è distesa, mi dice che sono vicina ad una spiaggia.
Quando Barcellona rivolse gli occhi al mare lo fece per ragioni di guerra e, forse per amore.
Solo mentre cammino è come se lentamente rileggessi i passi di alcuni racconti o brevi saggi che narrano di questa finestra sul mare aperta in tempi tutto sommato recenti.
Probabilmente molto più estranea agli abitanti di questa città di quanto non lo sia alla vista assetata dei turisti.
Fino al XV secolo la vista del mare era paura.
Le città tendevano a volgere le spalle a questa distesa irascibile e sconosciuta, che tra il mistico e il magico, spaventava chi non ne conosceva la sfrontata bellezza ma ne temeva le insidie.
Solo dopo il XV secolo le città aprono balconi ampi per guardare la dove non c’è fine: la linea retta dell’orizzonte che segna la fine di un blu e l’inizio di un altro.

La visione di chi vive in una isola, soprattutto se piccola, “appuntita” come che Pantelleria si innalza naturalmente in verticale impone uno sguardo diverso rivolto al mare.
Da grandangolo senza limiti.
Anche questa visione attraversa i secoli, ma è fatta di approdi e cammini, di popolazioni che della costa hanno fatto fortezze e che del mare sanno vivere e, al contempo, sanno anche come sia possibile morire.
La visione di chi “resta a galla” ma per un tempo che non è nelle mani dell’uomo.
Anche a Pantelleria la “terra”, per secoli, ha avuto un prestigio superiore a quello del mare.
Fino alla fine del novecento i padri, nel testamento, lasciavano ai maschi i poderi interni, lì dove il terreno poteva essere produttivo.
Alle donne andavano le “ciache” (la parola “ciaca” in siciliano vuol dire “pietra”) i dammusi vicino al mare, magazzini o abitazioni di nessun valore.
Solo verso la fine degli anni ‘50, quando dal Nord cominciarono ad arrivare frotte di turisti vi fu la “rivoluzione” che volle che la “ciaca” diventasse preziosa e il podere interno rimase, per un tempo un po’ più lungo, terreno di sudore e fatica.

Di mare, di pesca, di barche a Pantelleria si sa e si impara quel che basta.
Si imparava quel tanto che era sufficiente per un pasto a famiglia che profumasse di mare.

Le barche da diporto o i pescherecci, nella tradizione, hanno nomi di donne.
Sarà perché era sulle polene che sbatteva l’onda oppure perché alle Sante si invoca protezione.
O forse perché prima e ultime, alla sera e al mattino, sono le donne, quelle ferme e immobili, a scrutare l’orizzonte in attesa di una imbarcazione che faccia ritorno.
Negando la paura, con una mano a parare la luce che inonda l’occhio e nell’altra la mano di un figlio.

Foto di Claudia Picciotto

 
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