L’aragosta, abitante del mare di Pantelleria

L’aragosta, abitante del mare di Pantelleria

Siamo portati a credere che il mare Mediterraneo nel tempo sia diventato un mare “povero”, fenomeno che per alcuni aspetti è effettivamente avvenuto.
Ma resistono “banchi” (formazioni geologiche “abbastanza” vicine alla superficie) soprattutto nelle zone del Canale di Sicilia dove è possibile ammirare ancora ogni tipo di bellezza come le praterie di posidonia il cui colore va dal verde argento, al rosso fino al marrone striato bianco.
Tra la Sicilia, Pantelleria e Malta resistono ancora ( con livelli di profondità differenti) habitat di fondo duro che contengono innumerevoli e esotiche specie marine e, per chi fosse amante del brivido, non sono rari gli avvistamenti di squali bianchi, mentre per gli appassionati del corallo ( che per chi non lo sapesse sono animali della famiglia delle temute meduse, precisamente POLIPI che nel corso della loro vita producono una particolare molecola di calcio che lega fra i vari tentacoli) ve ne sono di tipi e variopinte varianti.

Si tratta del mio solito incipit un po’ nodoso, saltellante e approssimativamente vago.
La domanda che sfiora la mente di chi sta leggendo immagino sia: ma questa qui dove mi vuol portare?
La storia che vorrei raccontarvi oggi è una storia non sempre nota e riguarda le aragoste che popolano il nostro mare, che sono molto buone da mangiare ma che affrontano una vita dura e, se finiscono dentro una nassa, da lì alla pentola il passo è breve.

In pochi sanno che questo formidabile animale produce un enzima che moltiplica e ringiovanisce le sue cellule al punto che l’aragosta sarebbe “biologicamente” immortale.
L’aragosta è un crostaceo che tende a vivere nei pressi di fondali rocciosi e dai venti metri di profondità in giù.
Preda di uomini, polpi e murene, invece, lei predilige cibo povero come il plancton, le alghe, piccoli pesci morti e crostacei.
Ha una vita media di circa trenta anni, ma potrebbe vivere fino ai settanta.
La cosa stupefacente è che l’aragosta non muore di vecchiaia.
Muore per stanchezza.
Man mano che questo animale cresce in anni e in dimensioni è costretto a fare una specie di muta: il suo “esoscheletro” gli sta stretto, così si rifugia in un luogo protetto tra le rocce, si ciba di conchiglie e molluschi ricche di calcio e sali minerali, e perde a brandelli la sua armatura, resta nudo e preda facile, ma soprattutto questo lavoro di decostruzione e ricostruzione del suo carapace gli costa una fatica immensa.

Ad ogni cambio di guscio l’aragosta perde un po’ della sua forza e del suo vigore.
La fatica del continuo mutare, di questo suo “rinnovarsi” per potere crescere in dimensioni, il DOVERE, ogni volta depositarsi in un anfratto e ricorrere al necessario, per potere RICOSTRUIRE la sua corazza la depaupera di energia vitale.

Sicché benché biologicamente immortale è la vita che la stanca.
Come molti, ad un tratto, è costretta a rinunciare.

È una storia triste?
Piuttosto è fortemente simbolica.
È straordinaria.
Diventa crudele quando il finale è dentro l’acquario di un ristorante.

 
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